Con l’avvicinarsi della stagione fredda e delle inevitabili recrudescenze delle malattie stagionali, vale senz’altro la pena di fare un piccolo ripasso a proposito della vitamina D.
Secondo gli studi di Michael Holick, uno dei più grandi esperti a livello mondiale, la carenza di vitamina D è quella più diffusa al mondo, sia nei bambini che negli adulti. In Italia la SIOMMMS (Società Italiana dell’Osteoporosi, del Metabolismo Minerale e delle Malattie dello Scheletro) ne stima un deficit nell’80% della popolazione. La condizione carenziale aumenta con l’età fino a interessare la quasi totalità della popolazione italiana anziana che non la assume. Un recente (2015) studio italiano ha rilevato una carenza di oltre il 97% nei neonati italiani. A che cosa è dovuta questa situazione?
Per capirlo, dobbiamo studiare il modo in cui il nostro organismo se la procura.
La fonte principale di vitamina D è la radiazione solare, che trasforma il 7-deidrocolesterolo in pre-vitamina D3, mentre la quota di origine alimentare si aggira intorno al 20% e deriva principalmente dai pesci grassi, dal fegato e dalle uova; particolarmente ricco è l’olio di fegato di merluzzo. I raggi ultravioletti, in particolare gli UVB che sono quelli utili, di lunghezza d’onda compresa fra 290 e 315 nm, sono presenti solo per un numero limitato di ore, variabile a seconda della stagione e della latitudine (alle nostre latitudini fra le 11 e le 14, particolarmente fra aprile e luglio, con un picco fra maggio e giugno). La vitamina D assumibile con gli alimenti vegetali ha attività da 50 a 100 volte inferiore a quella di origine animale ed è quindi poco efficace.
La vitamina D introdotta con la dieta o ottenuta con la radiazione solare è biologicamente non attiva e deve subire due reazioni di idrossilazione per essere trasformata nella forma attiva, il calcitriolo 1,25(OH)D. La prima avviene a livello periferico in vari tessuti, dando origine a 25-idrossicolecalciferolo 25(OH)D, la seconda livello renale.
Una serie di fattori quindi determinano la sua carenza:
-Età: il soggetto anziano produce a parità di esposizione almeno il 30% in meno di vitamina D con l’esposizione solare
-Indice di massa corporea o BMI: nelle persone obese la vitamina D tende ad essere sequestrata nel tessuto adiposo e poco biodisponibile
-Fototipo cutaneo: le persone con pelle scura a causa dell’effetto della melatonina sintetizzano meno vitamina D
- Abbigliamento protettivo, filtri solari
- Vetri, che filtrano gli UVB
-Inquinamento atmosferico, a causa dell’assorbimento degli UVB da parte di alcune particelle
Per la sua struttura e le sue funzioni la vitamina D è in realtà un ormone, che ha come principale funzione la regolazione del metabolismo del calcio. Infatti, come un ormone steroideo entra nelle cellule e va a legarsi ad un recettore nucleare, stimolando la produzione di varie proteine, specie trasportatori del calcio. Essendo liposolubile si distribuisce soprattutto nei tessuti ricchi di grasso e la quantità depositata è maggiore quanto più tessuto adiposo è presente nell’organismo; a causa di ciò le persone in sovrappeso hanno bisogno di quantità maggiori per raggiungere livelli ottimali nel sangue.
Quali sono le funzioni della vitamina D?
La vitamina D favorisce il riassorbimento di calcio a livello renale, l’assorbimento intestinale di calcio e fosforo e i processi di mineralizzazione dell’osso. La regolazione dei livelli di calcio e fosforo avviene in sinergia con altri due ormoni, il paratormone (PTH) e la calcitonina (CT). La calcitonina favorisce l’eliminazione urinaria del calcio e la sua deposizione nell’osso, portando un abbassamento dei livelli ematici di calcio; il PTH invece aumenta il riassorbimento renale di calcio, ne stimola il rilascio da parte dell’osso e induce il rene a produrre 25(OH)D; tutte queste azioni si traducono in un aumento della calcemia. La regolazione di questi tre ormoni è legata ai livelli di calcio nel sangue: una condizione di ipocalcemia stimola la produzione di PTH e 25(OH)D, un aumento induce la produzione di CT.
Ma il ruolo della vitamina D non si limita a questo; molti studi hanno evidenziato un suo ruolo importante nella regolazione della risposta immunitaria.
Il suo valore nelle patologie autoimmunitarie è sempre più riconosciuto; in particolare la forma attiva della vitamina D agisce da immunomodulatore, inibendo l’iperattività dei linfociti TH17 tipica di queste malattie. Soprattutto per la sclerosi multipla, molti studi hanno dimostrato una relazione causale fra bassi livelli di vitamina D e insorgenza della malattia e la sua supplementazione interviene nella riparazione della guaina mielinica, portando a significativi miglioramenti. Nel 2014 è stato evidenziato dallo studio italo-norvegese EnvIMS una associazione fra ridotta esposizione al sole e aumentato rischio di SM, tanto che da una review dell’American Society for Nutrition i livelli di vitamina D circolanti vengono considerati come marcatori della malattia e la supplementazione viene ritenuta terapeutica.
Sembra anche che la vitamina D possa essere considerato un ormone neuro attivo, in grado di incidere sul declino cognitivo e addirittura nell’Alzheimer. Bassi livelli di vitamina D sembrano essere associati a depressione, secondo i risultati di uno studio pubblicato nel 2013 sul British Journal of Psychiatry e basato sull’analisi di oltre 30000 persone. Vari altri lavori suggeriscono un effetto antidepressivo della vitamina D somministrata ad alte dosi e notoriamente l’esposizione alla luce solare migliora il tono dell’umore, in parte anche per aumento di sintesi della vitamina.
Inoltre la vitamina D ha un effetto anticancro, attraverso la sua azione antiproliferativa e la sua capacità di controllare l’apoptosi, ossia la morte cellulare programmata. Vari studi hanno evidenziato una diminuzione statisticamente significativa del rischio di insorgenza di carcinomi; in particolare da uno studio del 2011 pubblicato su AnticancerResearch è emerso che 4000-8000 UI al giorno di vitamina D riducono a metà il rischio di cancro al seno e al colon, oltre che di diabete e sclerosi multipla. Inoltre, più alti livelli ematici di vitamina D sono associati in modo statisticamente significativo a minore mortalità per queste due neoplasie (Eur.J.Cancer 2014). Una metanalisi recente ha rilevato che alti livelli di vitamina D sono protettivi per il cancro al polmone.
Sempre più lavori infine correlano il deficit di vitamina D a un aumento di rischio cardiovascolare, sia direttamente sia tramite un aumento di incidenza di ipertensione, diabete, obesità e sindrome metabolica.
Come ho già detto, la vitamina D ha un ruolo importante come immunomodulatore, cosa di fondamentale importanza contro gli agenti microbici, tanto che un suo adeguato livello nel sangue è risultato ridurre significativamente l’incidenza di influenze e infezioni respiratorie acute; in particolare, è soprattutto una potente arma terapeutica contro la malattia del momento, la temutissima COVID-19.
Come sappiamo, la malattia si caratterizza per una prima fase di invasione e replicazione virale e una seconda di iperattivazione infiammatoria, la cosiddetta tempesta citochinica. Per entrambe queste fasi la vitamina D offre un grande aiuto, ampiamente documentato nella letteratura scientifica, nella quale sono riportati fino al mese di settembre 2021 ben 827 lavori pubblicati e sottoposti a revisione paritaria.
Una vasta metanalisi di novembre 2020 conclude ad esempio che vi è un’associazione fra il deficit di vitamina D e la severità della malattia. La carenza di vitamina D riduce infatti i linfociti Tregs, principale difesa contro l’infiammazione incontrollata, aumenta le citochine infiammatorie e il rischio trombotico. Nei protocolli di cura domiciliare precoce messi a punto dai gruppi di medici che nel corso della pandemia si stanno occupando di far fronte all’emergenza (ai quali anch’io do il mio piccolo contributo), la supplementazione della vitamina ad alto dosaggio è un presidio indispensabile, a fianco e non meno importante della terapia farmacologica.
Ma qual è il dosaggio giusto da assumere?
La semplice valutazione della vitamina D nel sangue va sempre eseguita per conoscere il nostro livello di partenza, necessario per calibrare la quantità necessaria. Attualmente in Italia un livello inferiore a 30 ng/ml è considerato la soglia dell’insufficienza, ma sufficiente non significa ottimale e secondo molti esperti sarebbe opportuno almeno un livello fra 50 e 70 ng per avere una protezione non solo a livello osseo.
Da lavori recenti, nei quali è stata comparata la somministrazione in boli (dosi elevate in unica assunzione) con dosi equivalenti suddivise giornalmente, si è evidenziato che quest’ultima modalità consente un assorbimento molto maggiore ed è quindi da preferire, se possibile. Da uno studio del 2010 su donne dai 70 anni in su si è addirittura evidenziato che megadosi di 500.000 UI una volta all’anno aumentano il rischio di cadute e fratture.
In generale, una supplementazione che consenta di raggiungere livelli ottimali è di circa 5000 UI giornaliere, sebbene a volte occorrano dosaggi più alti, anche in funzione dello stile di vita, della struttura corporea e della capacità di assorbimento. Il rischio di tossicità è molto ridotto anche con dosaggi consistenti, ma è comunque sempre necessario monitorare i livelli ematici almeno una o due volte l’anno.
È importante infine sottolineare l’indispensabile associazione con la vitamina K2, di cui parlerò in una prossima puntata.
To be continued …
Per approfondire consiglio:
Bertoletti M, Raffelli R. Menopausa- Il tempo ritrovato. Universo Editoriale, 2020
Pereira M et al. Vitamin D deficiency aggravates COVID-19: systematic review and meta-analysis. Crit Rev Food Sci Nutr. 2020 Nov 4:1-9
Weir EK, et al. Does vitamin D deficiency increase the severity of COVID-19? Clin Med (Lond). 2020;20(4):e107-e108
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