È l’inizio di novembre e abbiamo appena iniziato il nostro intensivo di ashtanga a Rishikesh.
Che la Birmania sarebbe stata la nostra tappa successiva, già lo sapevo. Il Myanmar era da sempre una delle mete must go di Roberto. Già agli inizi degli anni ’80 dopo aver sognato con le pagine di “Airone”, aveva prenotato un viaggio per la meta tanto desiderata, ma il colpo di stato ha mandato tutti i piani all’aria. Finalmente il Paese riapre i battenti e noi graviteremo in zona per un po’. Quindi al momento della pianificazione del nostro tour “semi-mondiale”, il Myanmar risultava tra le primissime tappe, la seconda per essere precisi. Periodo di soggiorno stabilito, volo acquistato. Un pomeriggio di novembre, mentre io cercavo di integrare alla pratica dello yoga un po’ di teoria, Roberto interrompe la sua lettura sulle città sacre indiane per richiamare la mia attenzione sulla Birmania.
- Dobbiamo prenotare il posto per la meditazione vipassana – mi dice come se lo avessimo già deciso e fosse cosa scontata.
- Come la meditazione Vipassana, dove? Quando? Perché? Questa cosa non era in programma! – Mi inalbero immediatamente, alzando scudi e brandendo alabarde spaziali!
La meditazione Vipassana è uno delle tantissime tecniche di meditazione che arrivano dall’Oriente. In particolare questa si rifà agli insegnamenti del Buddha e si basa fondamentalmente, semplifico e banalizzo, sul silenzio, l’osservazione del respiro e sul mantenere una mente equanime.
Quello che sapevo io all’epoca sulla Vipassana era che bisognava stare zitti!
Roberto, invece aveva partecipato ad un ritiro di 10 giorni nel 2004 e già all’epoca mi aveva chiesto se volevo andare con lui, ma - no grazie, zitta per 10 giorni? No, no, non fa per me! Vai pure, ci vediamo all’Elba, ciaooo!
Convinta di aver scampato pericolo, mi ritrovavo, a distanza di 10 anni, con l’incubo Vipassana più vivo che mai.
- No, scusa, ma non me lo avevi detto!
Come sempre, arrampicandosi sugli specchi e facendomi credere che sono io quella che non si ricorda niente o non ascolta, Roberto, va all’attacco:
- Certo che te lo avevo detto! Ascolti solo quello che ti pare. Se non vuoi venire, pazienza, ci vado da solo!
E certo!
Roberto trova il sito del Dhamma Joty Center e “noi” vogliamo andare proprio lì. Così, giusto per farmi un’idea di quello che mi aspetterà, leggo le regole di ammissione. Ecco, l’isolamento in confronto è un gioco da ragazzi.
Descrivo a volo d’uccello le principali regole: obbligo di osservare il Nobile Silenzio, che significa che, durante il soggiorno (di 10 giorni, è bene ricordarlo!) sarà vietato parlare, anche da soli; vietato incrociare sguardi con altre persone; vietato usare telefoni, tablet o computer; vietato leggere; vietato scrivere; vietato mangiare fuori dai pasti offerti; rispettare gli orari di meditazione; mantenere un abbigliamento consono: no pantaloni corti, no maniche corte, canottiera vietata pena la decapitazione, no leggings, no abbigliamento attillato o trasparente; no a ornamenti vistosi quali gioielli e anche il trucco non è ben visto; completa separazione tra uomini e donne; vietato oltrepassare i confini del centro; accettare di dormire in una camera e un letto “sobrio” (avrei scoperto in seguito che si sarebbe trattato di una branda di ferro con un materasso di 5 cm); rispetto del principio di non violenza che comprende una dieta vegetariana (questa è la cosa più facile, mi pare), non uccidere o ferire alcun animale, insetti compresi; non usare un linguaggio violento... ma tanto non si può parlare. All'interno della Dhamma Hall (la sala di meditazione) è vietato parlare (pare ovvio), allungare le gambe nella direzione dell'insegnante, stendersi, fare esercizi fisici; per tutte le ore di meditazione mantenere la posizione seduta con la schiena eretta e rimanendo il più possibile immobili con gli occhi chiusi.
Beh, diciamo che faccio un giretto in internet e vediamo se c’è qualcosa di più soft, eh?
- Amor, guarda, qui si può leggere, ci sono sessioni di meditazione camminata, andiamo qui? Hanno posto...
- No, no io vado al Dhamma Joty Center.
Faccio qualche altro controllo, qualche altra proposta, ma niente, il coniuge è irremovibile e la paura si insinua.
Una mattina dell’inizio di dicembre lasciamo l’India alla volta del Myanmar per una breve vacanza prima dell’inevitabile. Nel frattempo avevamo compilato e inviato il modulo dove chiedevamo l’ammissione all’ultimo ritiro dell’anno, sottoscrivendo tutte le regole di cui sopra ed era, ahimè, arrivata la conferma. Lo confesso, ho sperato intensamente che non ci fossero più posti disponibili!
Così l’11 dicembre, bevuto l’ultimo espresso, varchiamo i cancelli del Dhamma Joty Center, lasciamo documenti, cellulare, ipad, libri e portafogli in un armadietto di sicurezza. Firmiamo nuovamente e sottoscriviamo il rispetto di tutte le regole e poi con una valigina tipo ricovero ospedaliero, veniamo accompagnati nei nostri compound e io e Roberto ci salutiamo.
Mi assegnano una stanza, fortunatamente sono in camera da sola.
Sono solo le 16 e per un paio d’ore siamo libere di chiacchierare e così conosco le mie future compagne di corso. Tutte molto carine, qualcuna un po' nervosa, qualche altra totalmente ignara. Mentre siamo intente nella conoscenza reciproca, si presenta Beatrice, una francese che da 4 anni studia medicina ayurvedica all'università del Gujarat in India. Già così mi era sembrata sufficientemente suonata, quando poi ha detto che aveva già fatto 7 ritiri vipassana ho pensato che l'India le avesse fatto completamente perdere il lume della ragione. Tra una chiacchiera e l'altra, la sistemazione della stanza e la cena, arriva l’ora della prima sessione di meditazione alla presenza dei nostri futuri insegnanti. Nessuna presentazione, nessun discorso o raccomandazione, ma solo e ancora ripetizione delle regole, giurando (credo, di fatto abbiamo ripetuto parole incomprensibili in lingua pali) l’osservazione delle stesse. A seguire il programma giornaliero del nostro soggiorno.
Ma di questo vi parlerò un’altra volta, adesso invece una ricetta a metà tra India e sud est asiatico, tanto per entrare nello spirito. So che il tofu è visto come il demonio da circa il 98% della popolazione mondiale, fatta eccezione per i vegani e pochi altri. Anche Roberto lo ha sempre detestato, ma di questo, senza neppure sapere cosa fosse, ha detto "mmmmm, buonissima sta' roba!". Insomma, un successone! Personalmente cerco di consumarlo di rado e uso solo quello fermentato.
Cuorisità linguistiche: la lingua pali è una lingua indiana, appartenente alla famiglia delle lingue indoeuropee. Ancora oggi è usata come lingua liturgica del buddhismo Theravada.
Tofu fermentato al sapore di India
Ingredienti (per 2 persone)
200 g di tofu fermentato
200 g di yogurt di capra (yogurt di soia per la versione vegana, meno salutare ma.... )
2 cucchiai di tamari
1 cucchiaino di rasam (o curry rosso)
1 porro piccolo o 1 cipolla di tropea
1 cucchiaino di ghee (o olio di cocco)
sale qb
Preparazione
Tagliare il tofu a cubetti, metterlo in una ciotola con il tamari, lo yogurt e il rasam o curry rosso, coprire e lasciare riposare per 2 o 3 ore. Trascorso il tempo, cuocere il porro tagliato a rondelle sottili con il ghee e salare a piacere. Quando il porro è quasi pronto, versare il tofu con la sua salsa e cuocere, continuando a mescolare, per circa 10/15 minuti.
È ottimo consumato con riso basmati o verdure cotte e crude.
Buon appetito e fateci sapere se vi piace!
Lucia Di Lucca
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